Questo libro vuole ricostruire proprio la storia dei prodotti tipici italiani, che oggi rappresentano un pezzo importante dell’industria agroalimentare del Paese. Quasi sempre questi prodotti vengono descritti come frutto di una tradizione antica (in alcuni casi antichissima), sedimentata nei secoli e profondamente radicati nella storia e nelle tradizioni locali. La tesi di fondo di questo volume è che in gran parte dei casi queste storie siano frutto di trasformazioni molto più recenti e che quasi tutti i prodotti tipici italiani siano stati sostanzialmente “inventati” tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del XX sec. Paradossalmente questa verità, che in alcuni casi viene negata in maniera anche abbastanza ingenua (oltre che violenta), non sminuisce la qualità dei prodotti e non mette in discussione il successo di questi beni sui mercati nazionali e internazionali, ma anzi ne dovrebbe ancor più valorizzare il lavoro di selezione e marketing che sta alla base del loro successo. Oggi, infatti, esiste una fascia molto ampia di consumatori che non si accontenta di consumare un cibo buono, ma sempre più cerca nel cibo un esperienza totalizzante che appaghi in egual misura il palato e lo spirito. Nei prodotti tipici queste due dimensioni trovano un loro naturale completamento. Per questo, una storia dei prodotti tipici italiani conduce quasi fatalmente a un ragionamento più ampio sulla storia e sulla mitologia della cucina italiana nel suo complesso. Come detto, ammesso che esista una cosa chiamata “cucina italiana”, infatti, si tratta di un prodotto economico e culturale frutto di un processo in gran parte artificiale iniziato nel secondo dopoguerra, anche se ne possiamo scovare le radici nei decenni a cavallo del XIX e XX sec., come detto, grossomodo nella cosiddetta età giolittiana. Si è già accennato al fatto che in questo processo c’entrano, e molto, i milioni di italiani che lasciarono il Paese a cercare pane, prima che fortuna, in giro per il mondo. Come cercherò di dimostrare, infatti, i caratteri essenziali di molte cucine regionali si sono formati in America prima che in Italia. Ma in America la cucina italiana era inizialmente la cucina dei diseredati e anche, perché negarlo, dei delinquenti che non sempre si facevano ben volere nei paesi di destinazione. Anzi, negli Stati Uniti, fino alla Prima Guerra Mondiale esisteva un forte pregiudizio nei confronti di quello che mangiavano gli italiani. I medici americani considerarono a lungo l’olio d’oliva, la pasta e la pizza cibi pesanti e indigeribili da sconsigliare assolutamente all’interno di un corretto regime alimentare. E’ evidente che il giudizio sul cibo era figlio del giudizio che pesava su coloro che con quel cibo si sfamavano. E non è un caso, infatti, se in America l’opinione sui cibi e sui ristoranti italiani cambierà proprio con la Prima Guerra Mondiale, quando l’Italia, da paese di poveri e di ladri, si trasformò in eroico alleato e in coraggioso baluardo della democrazia contro gli autoritari imperi centrali. In questo contesto, dove la narrazione diventa un elemento fondamentale del cibo stesso, ci sta, ad esempio, un’altra straordinaria invenzione: la cosiddetta Dieta Mediterranea, da parte, guarda caso, di un fisiologo americano, Ancel Keys. L’inventore della “Razione K”, all’indomani della seconda guerra mondiale, fa una scoperta sensazionale: le persone denutrite non hanno problemi di colesterolo… Ma, al di là della facile ironia, resta il fatto che l’invenzione della dieta mediterranea e l’abile uso in termini di marketing che ne viene fatto, già dallo stesso Keys per altro, rilancia nel mondo un’idea di vita sana, bella e in grado di soddisfare tutti i sensi, che diventerà una sorta di garanzia di qualità per tutto ciò che possiamo genericamente ricondurre al Made in Italy. E così si arriva ai prodotti tipici, che di tutta questa storia raccolgono l’eredità e la rilanciano. Ma, come abbiamo già detto, siamo ormai arrivati agli anni ’70, alla fine del ciclo espansivo della grande industria, a una società, quella italiana, che, come annotò immediatamente Pasolini, aveva perso gran parte della sua identità, avendone in cambio un benessere impensabile solo vent’anni prima. In questo contesto, i prodotti tipici restituiscono un pezzo di identità ai territori e, allo stesso tempo, permettono di cogliere i frutti di quell’immagine di arretratezza sana e di valori tradizionali immutabili che fanno dell’Italia un paese un po’ bucolico e un po’ arcadico. Proprio per questo l’altra tesi forte del libro è che la tipicità andrebbe individuata non tanto sulla base del luogo nel quale un prodotto viene realizzato, ma sulla base della comunità che consuma quel determinato prodotto. La tradizione produttiva si può inventare facilmente, quella dei consumi è sicuramente più complessa da costruire a tavolino. Facendo una ricerca, nemmeno troppo approfondita, dei titoli che vengono pubblicati in Italia in questo periodo e accendendo il televisore su qualsiasi canale e in qualsiasi fascia oraria, ci si imbatte immancabilmente in volumi e programmi che trattano il tema della cucina, la gastronomia, le tradizioni locali, ecc. ecc. Anche opere di una certa pretesa, penso ad esempio al recentissimo volume di Piero Bevilacqua “Felicità d’Italia”, dedicano al tema gastronomico un’attenzione decisamente elevata. Inutile dire che prevale nettamente una lettura “agiografica” della cucina italiana, con una forte propensione ad individuarne le radici antiche (addirittura Bevilacqua parte dal periodo pre-romano, se non lo fermavano arrivava a Oetzi, il primo cuoco stellato in Italia, dato che poco prima di morire aveva cucinato e mangiato il cervo e lo stambecco…). Questo libro cerca di riannodare i fili di una storia che troppo spesso viene raccontata non con l’intento di analizzare “il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato”, secondo la nota definizione di Marc Bloch, ma con l’esigenza di “usare” il passato in funzione del presente. Qui si vorrebbe introdurre una visione più disincantata e anche dissacrante quando necessario. In realtà qualche falla si è già aperta, qua e là, e qualche dubbio è già venuto da tempo a studiosi ed eruditi su una narrazione e un’autoglorificazione che non possono non far sorgere sospetti a chi di mestiere dovrebbe fare dell’esegesi e della critica delle fonti i cardini del proprio lavoro.
Denominazione di Origine Inventata / Grandi, Alberto. - STAMPA. - (2018).
Denominazione di Origine Inventata
Alberto Grandi
2018-01-01
Abstract
Questo libro vuole ricostruire proprio la storia dei prodotti tipici italiani, che oggi rappresentano un pezzo importante dell’industria agroalimentare del Paese. Quasi sempre questi prodotti vengono descritti come frutto di una tradizione antica (in alcuni casi antichissima), sedimentata nei secoli e profondamente radicati nella storia e nelle tradizioni locali. La tesi di fondo di questo volume è che in gran parte dei casi queste storie siano frutto di trasformazioni molto più recenti e che quasi tutti i prodotti tipici italiani siano stati sostanzialmente “inventati” tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del XX sec. Paradossalmente questa verità, che in alcuni casi viene negata in maniera anche abbastanza ingenua (oltre che violenta), non sminuisce la qualità dei prodotti e non mette in discussione il successo di questi beni sui mercati nazionali e internazionali, ma anzi ne dovrebbe ancor più valorizzare il lavoro di selezione e marketing che sta alla base del loro successo. Oggi, infatti, esiste una fascia molto ampia di consumatori che non si accontenta di consumare un cibo buono, ma sempre più cerca nel cibo un esperienza totalizzante che appaghi in egual misura il palato e lo spirito. Nei prodotti tipici queste due dimensioni trovano un loro naturale completamento. Per questo, una storia dei prodotti tipici italiani conduce quasi fatalmente a un ragionamento più ampio sulla storia e sulla mitologia della cucina italiana nel suo complesso. Come detto, ammesso che esista una cosa chiamata “cucina italiana”, infatti, si tratta di un prodotto economico e culturale frutto di un processo in gran parte artificiale iniziato nel secondo dopoguerra, anche se ne possiamo scovare le radici nei decenni a cavallo del XIX e XX sec., come detto, grossomodo nella cosiddetta età giolittiana. Si è già accennato al fatto che in questo processo c’entrano, e molto, i milioni di italiani che lasciarono il Paese a cercare pane, prima che fortuna, in giro per il mondo. Come cercherò di dimostrare, infatti, i caratteri essenziali di molte cucine regionali si sono formati in America prima che in Italia. Ma in America la cucina italiana era inizialmente la cucina dei diseredati e anche, perché negarlo, dei delinquenti che non sempre si facevano ben volere nei paesi di destinazione. Anzi, negli Stati Uniti, fino alla Prima Guerra Mondiale esisteva un forte pregiudizio nei confronti di quello che mangiavano gli italiani. I medici americani considerarono a lungo l’olio d’oliva, la pasta e la pizza cibi pesanti e indigeribili da sconsigliare assolutamente all’interno di un corretto regime alimentare. E’ evidente che il giudizio sul cibo era figlio del giudizio che pesava su coloro che con quel cibo si sfamavano. E non è un caso, infatti, se in America l’opinione sui cibi e sui ristoranti italiani cambierà proprio con la Prima Guerra Mondiale, quando l’Italia, da paese di poveri e di ladri, si trasformò in eroico alleato e in coraggioso baluardo della democrazia contro gli autoritari imperi centrali. In questo contesto, dove la narrazione diventa un elemento fondamentale del cibo stesso, ci sta, ad esempio, un’altra straordinaria invenzione: la cosiddetta Dieta Mediterranea, da parte, guarda caso, di un fisiologo americano, Ancel Keys. L’inventore della “Razione K”, all’indomani della seconda guerra mondiale, fa una scoperta sensazionale: le persone denutrite non hanno problemi di colesterolo… Ma, al di là della facile ironia, resta il fatto che l’invenzione della dieta mediterranea e l’abile uso in termini di marketing che ne viene fatto, già dallo stesso Keys per altro, rilancia nel mondo un’idea di vita sana, bella e in grado di soddisfare tutti i sensi, che diventerà una sorta di garanzia di qualità per tutto ciò che possiamo genericamente ricondurre al Made in Italy. E così si arriva ai prodotti tipici, che di tutta questa storia raccolgono l’eredità e la rilanciano. Ma, come abbiamo già detto, siamo ormai arrivati agli anni ’70, alla fine del ciclo espansivo della grande industria, a una società, quella italiana, che, come annotò immediatamente Pasolini, aveva perso gran parte della sua identità, avendone in cambio un benessere impensabile solo vent’anni prima. In questo contesto, i prodotti tipici restituiscono un pezzo di identità ai territori e, allo stesso tempo, permettono di cogliere i frutti di quell’immagine di arretratezza sana e di valori tradizionali immutabili che fanno dell’Italia un paese un po’ bucolico e un po’ arcadico. Proprio per questo l’altra tesi forte del libro è che la tipicità andrebbe individuata non tanto sulla base del luogo nel quale un prodotto viene realizzato, ma sulla base della comunità che consuma quel determinato prodotto. La tradizione produttiva si può inventare facilmente, quella dei consumi è sicuramente più complessa da costruire a tavolino. Facendo una ricerca, nemmeno troppo approfondita, dei titoli che vengono pubblicati in Italia in questo periodo e accendendo il televisore su qualsiasi canale e in qualsiasi fascia oraria, ci si imbatte immancabilmente in volumi e programmi che trattano il tema della cucina, la gastronomia, le tradizioni locali, ecc. ecc. Anche opere di una certa pretesa, penso ad esempio al recentissimo volume di Piero Bevilacqua “Felicità d’Italia”, dedicano al tema gastronomico un’attenzione decisamente elevata. Inutile dire che prevale nettamente una lettura “agiografica” della cucina italiana, con una forte propensione ad individuarne le radici antiche (addirittura Bevilacqua parte dal periodo pre-romano, se non lo fermavano arrivava a Oetzi, il primo cuoco stellato in Italia, dato che poco prima di morire aveva cucinato e mangiato il cervo e lo stambecco…). Questo libro cerca di riannodare i fili di una storia che troppo spesso viene raccontata non con l’intento di analizzare “il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato”, secondo la nota definizione di Marc Bloch, ma con l’esigenza di “usare” il passato in funzione del presente. Qui si vorrebbe introdurre una visione più disincantata e anche dissacrante quando necessario. In realtà qualche falla si è già aperta, qua e là, e qualche dubbio è già venuto da tempo a studiosi ed eruditi su una narrazione e un’autoglorificazione che non possono non far sorgere sospetti a chi di mestiere dovrebbe fare dell’esegesi e della critica delle fonti i cardini del proprio lavoro.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.