Nel 1919 alcuni paesi vissero una rapida fase di crescita del tutto inaspettata. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giappone registrarono il boom più elevato, sostenuto dall'innalzamento dei prezzi determinato dall'aumento della domanda, compressa durante la guerra, e dai capitali accumulati nel corso del conflitto. Già nel corso dell'anno seguente altrettanto rapidamente subentrò la recessione. Gli stabilimenti industriali ridussero la produzione e contemporaneamente la disoccupazione, ampliata dalla smobilitazione delle forze armate, si innalzò repentinamente. Inoltre l'inflazione e il costante deprezzamento del cambio indirizzarono molti paesi ad adottare politiche di austerità che accentuarono la caduta. Durante quella breve fase di euforia si era erroneamente ritenuto che la conversione dall'economia bellica a quella di pace sarebbe stata più breve e facile del previsto. Nei circoli politici e finanziari dell'epoca maturò l'opinione che per ripristinare l'equilibrio ideale dell'economia mondiale, riavviando i flussi di capitale e i circuiti commerciali, occorresse ritornare al più presto al gold standard, ritenendo che questo fosse sufficiente. In realtà non era il sistema aureo ad aver generato la stabilità dell'anteguerra, ma era vero proprio il contrario: il suo funzionamento ottimale derivava proprio dalla situazione economica e sociale della belle epoque. La sterlina, che era stata la valuta di scambio delle contrattazioni internazionali, scontava il fatto che la Gran Bretagna aveva perso il suo primato finanziario a favore degli Stati Uniti. La correlazione tra investimenti britannici e flussi commerciali all'estero non supportava più l'equilibrio che si era disintegrato durante la Grande guerra, mentre la Russia era fuori e la Germania doveva pagare le riparazioni. Solo l'America avrebbe potuto reggere il sistema. Inoltre, come ha scritto Barry Eichengreen, erano cambiate radicalmente le condizioni politiche e sociali. La classe operaia aveva guadagnato ovunque maggiore forza contrattuale, e questo usualmente frenò la possibilità di agire sulla flessibilità e sul costo del lavoro. Gli allineamenti dei tassi di interesse ai disequilibri valutari avrebbero potuto generare la contrazione dell'economia e l'incremento della disoccupazione, e questo cozzava con la necessità per i movimenti politici di garantirsi il consenso delle masse e di vincere le future elezioni. In alcuni paesi l'estensione del diritto di voto, l'aumento dei consensi ai socialdemocratici, e la nascita dei partiti comunisti europei, come sezioni del Komintern, radicalizzarono la competizione politica. I governi, spesso composti da coalizioni eterogenee come in Francia, in Germania, e in Italia, prima dell'avvento del fascismo, dovevano privilegiare la tenuta dell'occupazione e l'espansione economica. Così il sistema perse credibilità perché non erano più certi gli aggiustamenti valutari quasi automatici che ripristinavano l'equilibrio precedente: gli operatori finanziari internazionali non potevano essere più sicuri, come nel passato, che a una svalutazione della moneta le autorità rispondessero alzando i tassi di interesse e avviando politiche di austerità. La variabilità dei tassi di cambio delle valute, avviatasi dopo lo smantellamento del controllo interstatale e delle restrizioni ai movimenti dei capitali decretati all'inizio del conflitto, incrementava la speculazione e peggiorava i livelli di inflazione, specie nei paesi con le monete più deboli. Per ripristinare la convertibilità aurea vi erano due possibilità, e cioè ritornare semplicemente alla parità del periodo prebellico oppure riallinearla alle nuove condizioni. I paesi che ritornarono più velocemente alla convertibilità furono quelli come la Germania (e Austria, Ungheria, Polonia) che subirono la polverizzazione del proprio sistema monetario.

Il dopoguerra: l'età dell'insicurezza / Podesta', Gian Luca. - STAMPA. - (2017), pp. 155-170.

Il dopoguerra: l'età dell'insicurezza

PODESTA', Gian Luca
2017-01-01

Abstract

Nel 1919 alcuni paesi vissero una rapida fase di crescita del tutto inaspettata. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Giappone registrarono il boom più elevato, sostenuto dall'innalzamento dei prezzi determinato dall'aumento della domanda, compressa durante la guerra, e dai capitali accumulati nel corso del conflitto. Già nel corso dell'anno seguente altrettanto rapidamente subentrò la recessione. Gli stabilimenti industriali ridussero la produzione e contemporaneamente la disoccupazione, ampliata dalla smobilitazione delle forze armate, si innalzò repentinamente. Inoltre l'inflazione e il costante deprezzamento del cambio indirizzarono molti paesi ad adottare politiche di austerità che accentuarono la caduta. Durante quella breve fase di euforia si era erroneamente ritenuto che la conversione dall'economia bellica a quella di pace sarebbe stata più breve e facile del previsto. Nei circoli politici e finanziari dell'epoca maturò l'opinione che per ripristinare l'equilibrio ideale dell'economia mondiale, riavviando i flussi di capitale e i circuiti commerciali, occorresse ritornare al più presto al gold standard, ritenendo che questo fosse sufficiente. In realtà non era il sistema aureo ad aver generato la stabilità dell'anteguerra, ma era vero proprio il contrario: il suo funzionamento ottimale derivava proprio dalla situazione economica e sociale della belle epoque. La sterlina, che era stata la valuta di scambio delle contrattazioni internazionali, scontava il fatto che la Gran Bretagna aveva perso il suo primato finanziario a favore degli Stati Uniti. La correlazione tra investimenti britannici e flussi commerciali all'estero non supportava più l'equilibrio che si era disintegrato durante la Grande guerra, mentre la Russia era fuori e la Germania doveva pagare le riparazioni. Solo l'America avrebbe potuto reggere il sistema. Inoltre, come ha scritto Barry Eichengreen, erano cambiate radicalmente le condizioni politiche e sociali. La classe operaia aveva guadagnato ovunque maggiore forza contrattuale, e questo usualmente frenò la possibilità di agire sulla flessibilità e sul costo del lavoro. Gli allineamenti dei tassi di interesse ai disequilibri valutari avrebbero potuto generare la contrazione dell'economia e l'incremento della disoccupazione, e questo cozzava con la necessità per i movimenti politici di garantirsi il consenso delle masse e di vincere le future elezioni. In alcuni paesi l'estensione del diritto di voto, l'aumento dei consensi ai socialdemocratici, e la nascita dei partiti comunisti europei, come sezioni del Komintern, radicalizzarono la competizione politica. I governi, spesso composti da coalizioni eterogenee come in Francia, in Germania, e in Italia, prima dell'avvento del fascismo, dovevano privilegiare la tenuta dell'occupazione e l'espansione economica. Così il sistema perse credibilità perché non erano più certi gli aggiustamenti valutari quasi automatici che ripristinavano l'equilibrio precedente: gli operatori finanziari internazionali non potevano essere più sicuri, come nel passato, che a una svalutazione della moneta le autorità rispondessero alzando i tassi di interesse e avviando politiche di austerità. La variabilità dei tassi di cambio delle valute, avviatasi dopo lo smantellamento del controllo interstatale e delle restrizioni ai movimenti dei capitali decretati all'inizio del conflitto, incrementava la speculazione e peggiorava i livelli di inflazione, specie nei paesi con le monete più deboli. Per ripristinare la convertibilità aurea vi erano due possibilità, e cioè ritornare semplicemente alla parità del periodo prebellico oppure riallinearla alle nuove condizioni. I paesi che ritornarono più velocemente alla convertibilità furono quelli come la Germania (e Austria, Ungheria, Polonia) che subirono la polverizzazione del proprio sistema monetario.
2017
9788892107595
Il dopoguerra: l'età dell'insicurezza / Podesta', Gian Luca. - STAMPA. - (2017), pp. 155-170.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11381/2829516
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