La conquista dell’Etiopia modificò la politica coloniale ponendola su un altro piano, quello dell’impero, concetto di cui Mussolini vagheggiava fin dal primo dopoguerra, e che sarebbe diventato uno dei cardini del regime fascista dopo l’avvio della politica demografica. L’impero, secondo il duce, era innanzi tutto una meta spirituale ideale per evitare il destino dei popoli decadenti dell’Occidente. Il significato attribuito al termine trascendeva il mero ampliamento territoriale dei domini per assumere una concezione quasi metafisica, rappresentando il processo di mutazione antropologica degli italiani cui il regime doveva tendere per confermare la propria carica rivoluzionaria e assolvere la missione che il fascismo attribuiva all’Italia. L’idea di impero del fascismo concepiva una nuova politica coloniale totalitaria che elaborava alcune linee guida comuni (come la gerarchia della razza e i programmi scolastici), superando l’eterogeneità storica, politica e culturale dei vari domini, e tenendo altresì conto che uno degli obbiettivi principali era quello di creare consistenti comunità italiane oltremare. Per evidenziarne le differenze col colonialismo classico delle altre potenze e sottolinearne il senso comunitario i giuristi definivano l’impero fascista come un corpus misticum composto da diverse parti, le quali, però, <<pur concorrendo tutte al raggiungimento delle stesse mete comuni e pur traendone ognuna il proprio vantaggio>> non erano sullo stesso piano: venivano prima l’Italia e l’Albania; seguivano la Libia e le Isole Italiane dell’Egeo; ultima figurava l’Africa Orientale Italiana (AOI). Naturalmente gli elementi che concorrevano a comporre la gerarchia dei domini erano principalmente razziali e culturali. Anche il governo dei possedimenti era differente: Egeo e Albania, che partecipava alla comunità imperiale quale entità autonoma e indipendente associata all’Italia, dipendevano dal ministero degli Esteri, mentre la Libia e l’AOI dal ministero dell’Africa Italiana (ex ministero delle Colonie), che aveva mutato denominazione proprio per sottolineare l’avvento del nuovo modo di concepire i rapporti tra madrepatria e colonie. Fra il 1936 e il 1940, in tutti i domini oltremare, inclusi Albania e Rodi, il regime fascista avviò un programma di colonizzazione demografica per trasferirvi i nuovi coloni italiani. L’emigrazione di famiglie selezionate rappresentava uno dei pilastri della politica fascista. In AOI il duce intendeva creare un nuovo sistema sociale organico che coniugasse la colonizzazione demografica alle altre forme di valorizzazione dislocandovi <<tutta l’attrezzatura della propria civiltà>> . La colonizzazione fascista andava intesa, nello spazio e nel tempo, come <<insediamento e potenziamento di popolo>>, ovvero come la trasposizione nelle colonie di tutti gli elementi produttivi della madrepatria, come contadini, operai, artigiani, impiegati, commercianti, piccoli imprenditori e intellettuali, aborrendo con ciò la colonizzazione di matrice capitalistica volta esclusivamente a beneficio di un ristretto ceto di privilegiati. Non vi poteva essere creazione dell’impero, secondo il duce, senza il popolamento di una massa compatta di contadini e guerrieri, in grado di rinnovarsi e moltiplicarsi, sopravanzando nel tempo, almeno in alcune regioni, gli africani. La popolazione nazionale avrebbe contribuito a fare dell’impero una unità reale con la madrepatria, una nuova Italia oltremare nell’accezione romana di insediamento di civiltà. Idealmente, perchè poi le vicende furono assai più sfumate, la colonizzazione demografica contadina avrebbe dovuto rivestire un ruolo preponderante, proprio per sottolineare il fatto che il nuovo impero italiano fosse, come sosteneva la propaganda del regime, impero di popolo, cioè a beneficio di tutti e non soltanto di alcuni ceti ristretti, con un alto fine di giustizia sociale e di tendenziale riduzione delle più marcate differenze di classe, diretta conseguenza di un regime popolare totalitario. Questa concezione avrebbe esaudito tre obiettivi fondamentali: preservare e moltiplicare la potenza numerica del paese, cementare la coesione razziale della popolazione e instillare la consapevolezza della superiorità della razza e, infine, promuovere l’elevazione sociale di grandi masse popolari. I progetti di colonizzazione furono avviati in forma sperimentale nel 1937 e procedettero con grande lentezza sia per l’insicurezza generata dalla guerriglia etiopica sia per le insufficienti risorse finanziarie dell’amministrazione italiana. Le famiglie contadine selezionate furono inquadrate da alcuni enti parastatali (Opera Nazionale Combattenti, Romagna, Puglia, Veneto, De Rege), che avviarono la costruzione dei poderi e dei borghi rurali in alcune zone strategiche vicino ai più importanti centri urbani dell’impero. Come enfatizzava la propaganda del regime, senza percepirne l’involontaria ironia, quello della colonizzazione demografica sarebbe stato il campo d’azione in AOI in cui l’Italia avrebbe concepito il proprio maggior sforzo creativo. Il duplice obbiettivo era quello di coniugare nel più breve tempo possibile l’emigrazione delle famiglie coloniche e di accrescere la produzione di cereali, verdure e ortaggi al fine di raggiungere l’autarchia alimentare dell’impero. Tutti gli ostacoli organizzativi, fisici ed economici sarebbero stati superati grazie allo <<slancio vitale>> del popolo italiano . Nel 1936 erano stati elaborati i caratteri fondamentali della colonizzazione in AOI. Essi si discostavano in parte da quelli già messi in pratica in Italia e in Libia perché ponevano una maggiore attenzione agli aspetti di carattere militare e ampliavano le dimensioni dei poderi destinati ai contadini. Naturalmente queste differenze si sarebbero riverberate anche sui caratteri specifici dei villaggi rurali. Il programma avrebbe dovuto avvenire gradualmente perché era necessario superare una serie di problemi immensi: la completa pacificazione dell’AOI, la ricerca delle aree più idonee, anche per non creare contrasti con la popolazione etiopica, e, infine, la selezione dei coloni . Le idee guida seguivano nelle linee fondamentali quelle della bonifica integrale. Gli enti parastatali finanziati dallo stato avrebbero curato la bonifica e l’appoderamento delle terre. Inizialmente i contadini sarebbero stati inquadrati in legioni della milizia, costituendo così un presidio militare permanente per la difesa militare di quelle aree. La legione doveva disporre anche degli artigiani, operai specializzati, impiegati, sanitari e tecnici per completare ogni aspetto della vita civile. Le famiglie coloniche, tutte provenienti dalla stessa regione italiana, avrebbero ricevuto un salario e delle anticipazioni sotto forma di scorte e capitali e, in un secondo momento, qualora avessero dimostrato di possedere le caratteristiche indispensabili, sarebbero divenute le legittime proprietarie della terra. La dimensione delle singole unità poderali, tra i 30 e i 50 ettari, era nettamente più elevata rispetto a quella della madrepatria, ma era commisurata alla vastità degli spazi etiopici. La famiglia italiana si sarebbe avvalsa anche di mano d’opera africana salariata. La fretta con cui il regime doveva dimostrare di implementare rapidamente la colonizzazione demografica subordinava anche la costruzione dei borghi rurali. Come recitava incessantemente la propaganda i coloni dovevano possedere le virtù dei pionieri ed essere predisposti a qualunque sacrificio; pertanto all’inizio ci si sarebbe dovuti adattare a vivere nelle tende militari e più tardi in capanne costruite all’uso degli etiopici con la cicca (mattoni di fango e paglia compressi e posti uno sull’altro) o altri materiali locali. Solo in un terzo tempo si sarebbe proceduto alla costruzione dei nuovi villaggi rurali. In AOI il borgo avrebbe sempre costituito una unità militare anche dopo aver superato la fase dell’avviamento iniziale. La questione prioritaria da risolvere per avviare la colonizzazione agricola era però quella della disponibilità delle terre. In Etiopia occorreva distinguere nettamente da una regione all’altra per individuare con certezza e precisione gli usi e le istituzioni fondiarie. Questo costituiva innanzi tutto un delicatissimo problema politico. Nei primi tempi dell’occupazione si era agito senza un piano preciso, procedendo a espropriazioni e trasferimenti forzati delle popolazioni africane. Questo aveva rafforzato la guerriglia etiopica. Il regime decise quindi di provare a conciliare due esigenze: quella di rispettare i diritti degli indigeni, anche perché la loro collaborazione era determinante per incrementare la produzione agricola e raggiungere l’autosufficienza alimentare, e quella di procedere rapidamente all’avvio del programma di colonizzazione. Si era spesso proceduto a lottizzazioni nelle immediate vicinanze dei centri principali, infrangendo i diritti degli abitanti etiopici. Le nuove e definitive direttive generali furono emanate dal duce nell’aprile 1938, scritte col lapis rossoblù su un documento che gli aveva indirizzato il sottosegretario all’Africa Italiana, Attilio Teruzzi . Secondo gli ordini del capo del governo si doveva procedere esclusivamente all’indemaniamento delle terre confiscate al negus e ai ribelli, di quelle reputate giuridicamente come res nullius, e di quelle di agevole indemaniamento (cioè, senza cozzare contro i diritti dei residenti etiopici). L’estrema differenziazione delle situazioni, da regione a regione, rendeva comunque di non facile interpretazione e risoluzione la normativa. Per le terre demaniali e per quelle confiscate, per esempio, sorgeva il problema di liberare tali aree nei casi in cui esse fossero già coltivate dai coltivatori etiopici. In questo caso sarebbe stato necessario procedere, operando delle permute, al trasferimento degli africani in altre zone demaniali, come fu effettivamente fatto nello Scioa per procedere all’opera di colonizzazione da parte dell’ Opera Nazionale Combattenti (ONC). Anche per le terre sulle quali apparentemente gli etiopici non avanzavano alcun diritto di proprietà non era facile e rapido l’indemaniamento perché era difficile stabilirne l’entità complessiva. Si riteneva plausibile far rientrare in questa categoria tutte quelle superfici che, valorizzate con metodi molto estensivi, potevano essere confiscate a beneficio del demanio senza gravi conseguenze politiche. Il governo del Galla e Sidama, per esempio, aveva censito circa 200.000 ettari nel proprio territorio. Ma, poiché il regime fondiario locale doveva fatalmente essere modificato per avviare la colonizzazione, era prevedibile che la reazione delle popolazioni africane sarebbe stata molto diversa a seconda che si trattasse di terre valorizzate con coltivazioni stabili da contadini residenti oppure di superfici nelle quali le colture indigene erano sporadiche e le genti nomadi. Le istruzioni del governo premevano perché fossero progressivamente sostituite le superfici coltivate con metodi arcaici per aumentare la produttività e diminuire le importazioni dalla madrepatria. Teoricamente le aziende agricole italiane avrebbero dovuto disporre di terre fertili, ubicate in prossimità dei centri urbani, con ampia disponibilità anche di manodopera africana e dotate di una efficiente rete stradale. Ma sarebbe stato necessario certamente attuare dei trasferimenti forzati della popolazione indigena per liberare le zone destinate alla colonizzazione demografica. Naturalmente un progetto di questo tipo, concepibile solo se attuato in un arco temporale molto esteso, avrebbe rafforzato la rivolta etiopica, oltre a implicare costi enormi per l’amministrazione. Il programma avrebbe dovuto essere graduale, ma, per non scalfire il prestigio politico del regime in patria e all’estero, i tempi furono accelerati . Ma già alla fine del 1937, per esplicita volontà di Mussolini, la colonizzazione fu rallentata sia per ragioni politiche determinate dal timore che l’immissione dei contadini italiani aggravasse la guerriglia sia per i costi che oltrepassavano le possibilità economiche dell’amministrazione imperiale . Da allora la colonizzazione demografica avrebbe assunto prevalentemente un carattere sperimentale, anche se la propaganda avrebbe continuato, per mobilitare il consenso delle masse, a dipingere un quadro idilliaco, indicando cifre del tutto inattendibili sulla capacità di accoglienza dell’impero, tanto da sollevare le proteste degli stessi enti di colonizzazione

La colonizzazione demografica e i borghi rurali in Africa Orientale Italiana / Podesta', Gian Luca. - (2017), pp. 218-229.

La colonizzazione demografica e i borghi rurali in Africa Orientale Italiana

PODESTA', Gian Luca
2017-01-01

Abstract

La conquista dell’Etiopia modificò la politica coloniale ponendola su un altro piano, quello dell’impero, concetto di cui Mussolini vagheggiava fin dal primo dopoguerra, e che sarebbe diventato uno dei cardini del regime fascista dopo l’avvio della politica demografica. L’impero, secondo il duce, era innanzi tutto una meta spirituale ideale per evitare il destino dei popoli decadenti dell’Occidente. Il significato attribuito al termine trascendeva il mero ampliamento territoriale dei domini per assumere una concezione quasi metafisica, rappresentando il processo di mutazione antropologica degli italiani cui il regime doveva tendere per confermare la propria carica rivoluzionaria e assolvere la missione che il fascismo attribuiva all’Italia. L’idea di impero del fascismo concepiva una nuova politica coloniale totalitaria che elaborava alcune linee guida comuni (come la gerarchia della razza e i programmi scolastici), superando l’eterogeneità storica, politica e culturale dei vari domini, e tenendo altresì conto che uno degli obbiettivi principali era quello di creare consistenti comunità italiane oltremare. Per evidenziarne le differenze col colonialismo classico delle altre potenze e sottolinearne il senso comunitario i giuristi definivano l’impero fascista come un corpus misticum composto da diverse parti, le quali, però, <> non erano sullo stesso piano: venivano prima l’Italia e l’Albania; seguivano la Libia e le Isole Italiane dell’Egeo; ultima figurava l’Africa Orientale Italiana (AOI). Naturalmente gli elementi che concorrevano a comporre la gerarchia dei domini erano principalmente razziali e culturali. Anche il governo dei possedimenti era differente: Egeo e Albania, che partecipava alla comunità imperiale quale entità autonoma e indipendente associata all’Italia, dipendevano dal ministero degli Esteri, mentre la Libia e l’AOI dal ministero dell’Africa Italiana (ex ministero delle Colonie), che aveva mutato denominazione proprio per sottolineare l’avvento del nuovo modo di concepire i rapporti tra madrepatria e colonie. Fra il 1936 e il 1940, in tutti i domini oltremare, inclusi Albania e Rodi, il regime fascista avviò un programma di colonizzazione demografica per trasferirvi i nuovi coloni italiani. L’emigrazione di famiglie selezionate rappresentava uno dei pilastri della politica fascista. In AOI il duce intendeva creare un nuovo sistema sociale organico che coniugasse la colonizzazione demografica alle altre forme di valorizzazione dislocandovi <> . La colonizzazione fascista andava intesa, nello spazio e nel tempo, come <>, ovvero come la trasposizione nelle colonie di tutti gli elementi produttivi della madrepatria, come contadini, operai, artigiani, impiegati, commercianti, piccoli imprenditori e intellettuali, aborrendo con ciò la colonizzazione di matrice capitalistica volta esclusivamente a beneficio di un ristretto ceto di privilegiati. Non vi poteva essere creazione dell’impero, secondo il duce, senza il popolamento di una massa compatta di contadini e guerrieri, in grado di rinnovarsi e moltiplicarsi, sopravanzando nel tempo, almeno in alcune regioni, gli africani. La popolazione nazionale avrebbe contribuito a fare dell’impero una unità reale con la madrepatria, una nuova Italia oltremare nell’accezione romana di insediamento di civiltà. Idealmente, perchè poi le vicende furono assai più sfumate, la colonizzazione demografica contadina avrebbe dovuto rivestire un ruolo preponderante, proprio per sottolineare il fatto che il nuovo impero italiano fosse, come sosteneva la propaganda del regime, impero di popolo, cioè a beneficio di tutti e non soltanto di alcuni ceti ristretti, con un alto fine di giustizia sociale e di tendenziale riduzione delle più marcate differenze di classe, diretta conseguenza di un regime popolare totalitario. Questa concezione avrebbe esaudito tre obiettivi fondamentali: preservare e moltiplicare la potenza numerica del paese, cementare la coesione razziale della popolazione e instillare la consapevolezza della superiorità della razza e, infine, promuovere l’elevazione sociale di grandi masse popolari. I progetti di colonizzazione furono avviati in forma sperimentale nel 1937 e procedettero con grande lentezza sia per l’insicurezza generata dalla guerriglia etiopica sia per le insufficienti risorse finanziarie dell’amministrazione italiana. Le famiglie contadine selezionate furono inquadrate da alcuni enti parastatali (Opera Nazionale Combattenti, Romagna, Puglia, Veneto, De Rege), che avviarono la costruzione dei poderi e dei borghi rurali in alcune zone strategiche vicino ai più importanti centri urbani dell’impero. Come enfatizzava la propaganda del regime, senza percepirne l’involontaria ironia, quello della colonizzazione demografica sarebbe stato il campo d’azione in AOI in cui l’Italia avrebbe concepito il proprio maggior sforzo creativo. Il duplice obbiettivo era quello di coniugare nel più breve tempo possibile l’emigrazione delle famiglie coloniche e di accrescere la produzione di cereali, verdure e ortaggi al fine di raggiungere l’autarchia alimentare dell’impero. Tutti gli ostacoli organizzativi, fisici ed economici sarebbero stati superati grazie allo <> del popolo italiano . Nel 1936 erano stati elaborati i caratteri fondamentali della colonizzazione in AOI. Essi si discostavano in parte da quelli già messi in pratica in Italia e in Libia perché ponevano una maggiore attenzione agli aspetti di carattere militare e ampliavano le dimensioni dei poderi destinati ai contadini. Naturalmente queste differenze si sarebbero riverberate anche sui caratteri specifici dei villaggi rurali. Il programma avrebbe dovuto avvenire gradualmente perché era necessario superare una serie di problemi immensi: la completa pacificazione dell’AOI, la ricerca delle aree più idonee, anche per non creare contrasti con la popolazione etiopica, e, infine, la selezione dei coloni . Le idee guida seguivano nelle linee fondamentali quelle della bonifica integrale. Gli enti parastatali finanziati dallo stato avrebbero curato la bonifica e l’appoderamento delle terre. Inizialmente i contadini sarebbero stati inquadrati in legioni della milizia, costituendo così un presidio militare permanente per la difesa militare di quelle aree. La legione doveva disporre anche degli artigiani, operai specializzati, impiegati, sanitari e tecnici per completare ogni aspetto della vita civile. Le famiglie coloniche, tutte provenienti dalla stessa regione italiana, avrebbero ricevuto un salario e delle anticipazioni sotto forma di scorte e capitali e, in un secondo momento, qualora avessero dimostrato di possedere le caratteristiche indispensabili, sarebbero divenute le legittime proprietarie della terra. La dimensione delle singole unità poderali, tra i 30 e i 50 ettari, era nettamente più elevata rispetto a quella della madrepatria, ma era commisurata alla vastità degli spazi etiopici. La famiglia italiana si sarebbe avvalsa anche di mano d’opera africana salariata. La fretta con cui il regime doveva dimostrare di implementare rapidamente la colonizzazione demografica subordinava anche la costruzione dei borghi rurali. Come recitava incessantemente la propaganda i coloni dovevano possedere le virtù dei pionieri ed essere predisposti a qualunque sacrificio; pertanto all’inizio ci si sarebbe dovuti adattare a vivere nelle tende militari e più tardi in capanne costruite all’uso degli etiopici con la cicca (mattoni di fango e paglia compressi e posti uno sull’altro) o altri materiali locali. Solo in un terzo tempo si sarebbe proceduto alla costruzione dei nuovi villaggi rurali. In AOI il borgo avrebbe sempre costituito una unità militare anche dopo aver superato la fase dell’avviamento iniziale. La questione prioritaria da risolvere per avviare la colonizzazione agricola era però quella della disponibilità delle terre. In Etiopia occorreva distinguere nettamente da una regione all’altra per individuare con certezza e precisione gli usi e le istituzioni fondiarie. Questo costituiva innanzi tutto un delicatissimo problema politico. Nei primi tempi dell’occupazione si era agito senza un piano preciso, procedendo a espropriazioni e trasferimenti forzati delle popolazioni africane. Questo aveva rafforzato la guerriglia etiopica. Il regime decise quindi di provare a conciliare due esigenze: quella di rispettare i diritti degli indigeni, anche perché la loro collaborazione era determinante per incrementare la produzione agricola e raggiungere l’autosufficienza alimentare, e quella di procedere rapidamente all’avvio del programma di colonizzazione. Si era spesso proceduto a lottizzazioni nelle immediate vicinanze dei centri principali, infrangendo i diritti degli abitanti etiopici. Le nuove e definitive direttive generali furono emanate dal duce nell’aprile 1938, scritte col lapis rossoblù su un documento che gli aveva indirizzato il sottosegretario all’Africa Italiana, Attilio Teruzzi . Secondo gli ordini del capo del governo si doveva procedere esclusivamente all’indemaniamento delle terre confiscate al negus e ai ribelli, di quelle reputate giuridicamente come res nullius, e di quelle di agevole indemaniamento (cioè, senza cozzare contro i diritti dei residenti etiopici). L’estrema differenziazione delle situazioni, da regione a regione, rendeva comunque di non facile interpretazione e risoluzione la normativa. Per le terre demaniali e per quelle confiscate, per esempio, sorgeva il problema di liberare tali aree nei casi in cui esse fossero già coltivate dai coltivatori etiopici. In questo caso sarebbe stato necessario procedere, operando delle permute, al trasferimento degli africani in altre zone demaniali, come fu effettivamente fatto nello Scioa per procedere all’opera di colonizzazione da parte dell’ Opera Nazionale Combattenti (ONC). Anche per le terre sulle quali apparentemente gli etiopici non avanzavano alcun diritto di proprietà non era facile e rapido l’indemaniamento perché era difficile stabilirne l’entità complessiva. Si riteneva plausibile far rientrare in questa categoria tutte quelle superfici che, valorizzate con metodi molto estensivi, potevano essere confiscate a beneficio del demanio senza gravi conseguenze politiche. Il governo del Galla e Sidama, per esempio, aveva censito circa 200.000 ettari nel proprio territorio. Ma, poiché il regime fondiario locale doveva fatalmente essere modificato per avviare la colonizzazione, era prevedibile che la reazione delle popolazioni africane sarebbe stata molto diversa a seconda che si trattasse di terre valorizzate con coltivazioni stabili da contadini residenti oppure di superfici nelle quali le colture indigene erano sporadiche e le genti nomadi. Le istruzioni del governo premevano perché fossero progressivamente sostituite le superfici coltivate con metodi arcaici per aumentare la produttività e diminuire le importazioni dalla madrepatria. Teoricamente le aziende agricole italiane avrebbero dovuto disporre di terre fertili, ubicate in prossimità dei centri urbani, con ampia disponibilità anche di manodopera africana e dotate di una efficiente rete stradale. Ma sarebbe stato necessario certamente attuare dei trasferimenti forzati della popolazione indigena per liberare le zone destinate alla colonizzazione demografica. Naturalmente un progetto di questo tipo, concepibile solo se attuato in un arco temporale molto esteso, avrebbe rafforzato la rivolta etiopica, oltre a implicare costi enormi per l’amministrazione. Il programma avrebbe dovuto essere graduale, ma, per non scalfire il prestigio politico del regime in patria e all’estero, i tempi furono accelerati . Ma già alla fine del 1937, per esplicita volontà di Mussolini, la colonizzazione fu rallentata sia per ragioni politiche determinate dal timore che l’immissione dei contadini italiani aggravasse la guerriglia sia per i costi che oltrepassavano le possibilità economiche dell’amministrazione imperiale . Da allora la colonizzazione demografica avrebbe assunto prevalentemente un carattere sperimentale, anche se la propaganda avrebbe continuato, per mobilitare il consenso delle masse, a dipingere un quadro idilliaco, indicando cifre del tutto inattendibili sulla capacità di accoglienza dell’impero, tanto da sollevare le proteste degli stessi enti di colonizzazione
2017
9788860607713
La colonizzazione demografica e i borghi rurali in Africa Orientale Italiana / Podesta', Gian Luca. - (2017), pp. 218-229.
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